lunedì 11 aprile 2016

“Italian way of cooking” di Marco Cardone

Italian way of cooking è un libro che mi ha divertito dalla prima all'ultima pagina. Forse non l'avrei detto all'inizio, un po' spiazzato dalla presentazione ("... romanzo horror, urban fantasy culinario...") ma nonostante tutto incuriosito dal presupposto: un cuoco che di punto in bianco si mette a cucinar mostri. Ma è anche questo il bello di una sorpresa per un nuovo autore che finora non conoscevo e perciò sono felice di promuovere, chiedendogli di rispondere ad alcune domande in fondo al post.

Italian way of cooking è la storia di Nero, cuoco proprietario di un ristorante che non versa in buone acque, tra il calo dei clienti e una vecchia questione con delle tasse non pagate anni addietro. Nero è inoltre separato (o divorziato) e deve ogni tanto occuparsi anche dei figli, che insieme al ristorante, ai dipendenti e alle beghe con il fisco vede come tante catene che lo vincolano all'inesorabile declino della sua vita. Una sera però un mostro si intrufola nella loro casa, situata sopra il ristorante, e aggredisce il figlio più piccolo. Nero riesce a uccidere il mostro e tranquillizzare i bambini, tuttavia si trova di fronte al problema concreto di liberarsi della carcassa senza che gli provochi ulteriori problemi. E l'idea di provare a cucinare il mostro si rivelerà essere decisiva per il futuro della sua attività.

Se da una parte è presente, e sembra quasi scontato, l'elemento orrorifico, questo romanzo è più propriamente un urban fantasy, sebbene di ambientazione rurale, del tipo a cui forse in Italia non siamo molto abituati, o che forse non è mai stato presentato in questo modo. Nero è un eroe contemporaneo, che però ha molto poco di eroico; è un personaggio a tutto tondo, simpatico ma con difetti e debolezze e una serie di problemi molto concreti: la sua avventura è la ricerca di un modo per risollevare le sorti del locale, e magari conservare la propria casa. È quindi in un contesto (purtroppo) facilmente riconoscibile che spuntano i mostri, tutti presi dal folklore italiano, nuovi problemi e opportunità.

Italian way of cooking è un romanzo scorrevole, che si legge con gusto dall'inizio alla fine. La cucina, ovviamente, è un elemento fondamentale (in appendice c'è una serie di ricette raccolte in un contest di Letteratura Horror) e il lavoro di Nero viene descritto minuziosamente e con competenza. La lingua usata nei dialoghi è il vernacolo. Se ascoltare i personaggi di Lo chiamavano Jeeg Robot vi ha dato fastidio, questo libro potrebbe sortire lo stesso effetto. Tuttavia è la lingua che sentirei, da turista, nel Chianti, pertanto, dopo un primo spiazzamento, l'ho trovato molto naturale e apprezzato in quanto si sposa magnificamente con il tono della narrazione.

In conclusione, una novità che mi sento di consigliare a tutti gli appassionati di cucina e di fantasy, che almeno una volta siano passati dalle colline toscane. Per tutti gli altri, un pensierino lo farei lo stesso.



Quattro chiacchiere con l'autore


Ciao Marco, grazie per la tua disponibilità e benvenuto nel blog. Ti andrebbe di presentarti brevemente come autore ai lettori?

Salve a tutti e grazie per lo spazio. È inutile che citi pubblicazioni e riconoscimenti: sono pochi e, comunque, non interessano a nessuno. Quel che importa alla gente è leggere buone storie: mi piace pensare di essere il genere di autore che le scrive. In realtà, penso a me stesso come a un artigiano della narrativa: sono puntiglioso, autocritico e pignolo al limite della nerdaggine. Odio i finali aperti, gli errori di punto di vista e le ingenuità, quindi da un mio libro ci si può aspettare (e si deve pretendere) una solida documentazione alla base, maniacale lavoro di rifinitura e una storia in cui, alla fine, tutto torna al millimetro, fino all’ultimo piccolo filo di trama. Per chi non mi conosce (tutti, direi), preciso che mi occupo in prevalenza di narrativa fantastica, in tutte le sue declinazioni; credo che sia un mezzo espressivo eccellente per parlare dell’essere umano e della vita per metafore, per esplorare il passato e ipotizzare il futuro.

Quali sono i tuoi punti di riferimento artistici, non soltanto letterari, come scrittore?

Questa domanda mi mette sempre in crisi, perché so che dovrei avere dei riferimenti chiari e, quando non mi vengono in mente subito, mi sento in colpa e mi chiedo se questo faccia di me un presuntuoso. Alla fine credo sia solo questione di avere gusti eterogenei e una buona capacità di amalgama; molto di ciò che ho letto e visto mi ha influenzato, senza però che qualcosa in particolare prendesse il sopravvento. Amo il surreale cinismo di Chuck Palahniuk ma devo molto anche a un verboso come King; ho imparato ad apprezzare l’umorismo inglese da ragazzino con J.K. Jerome e adoro Pennac, però sono anche cresciuto a pane e comics, Tex Willer accanto all’Uomo Ragno Gigante della Corno. E poi Tarantino, Matheson, Garth Ennis, Camilleri, Asimov e Richard Bach. Insomma, emergo da un’accozzaglia variopinta senza un filo conduttore e, soprattutto, mi piace pensare di aver sviluppato uno stile personale e non avere ormai troppi debiti di riconoscenza. Alla fine, in effetti, si può pensare che io sia presuntuoso. L’unico modo di essene certi è leggere il mio romanzo.

Nel tuo romanzo, il protagonista è un cuoco che si trova a cucinare mostri. In questo caso, la domanda più banale di tutte sorge spontanea: come ti è venuta l'idea?

Non lo voglio dire. A dire il vero, avevo scritto una risposta articolata e complessa, con tutti i passaggi mentali che mi hanno portato a quella che, a quanto pare, è una di quelle idee tanto sceme da essere geniali. Spiegare come è nata sarebbe come rivelare le quinte durante una rappresentazione teatrale: ucciderebbe la magia.

All’inizio avevo proposto ad Acheron Books un’opera ucronica ricca di personaggi storici, linee di trama parallele che s’intersecavano e flashback; in poche parole, mi è stato risposto: “mmm… bello, ma un po’ troppo complicato. Se vogliamo presentarlo anche al mercato americano, ci vuole un’idea più brillante e immediata, che colpisca in poche parole”. Ci sono rimasto un po’ male, lo ammetto. Poi, tanto per buttarla lì, ho scritto un pitch di poche righe su un cuoco che scopriva che i mostri erano commestibili e deliziosi, così cominciava a cacciarli e cucinarli. I ragazzi di Acheron si sono quasi commossi. Tutti quelli che hanno sentito l’idea mi hanno detto “funziona” (raccomandandomi però di fare attenzione, perché sarebbe stato facile scadere nel ridicolo). In definitiva, con il senno di poi, posso dire che Acheron aveva ragione, l’ucronia arriverà quando avrò tanti lettori che si fideranno di me. Ma non è per nulla detto che sarà meglio di un cuoco di mostri.

Per scrivere Italian way of cooking hai dovuto documentarti in due differenti argomenti: il folklore italiano e la cucina, in particolare nell'ambito della ristorazione. Come hai lavorato?

Considero la cucina una magnifica forma espressiva, che amo e pratico. Ho anche lavorato come cuoco per un certo periodo, proprio in Toscana, quindi scrivere un libro sull'argomento è stato relativamente semplice. Nonostante ciò, sprezzante dell’inenarrabile sacrificio che questo ha comportato, ho visitato a più riprese il Chianti e le altre località presenti nel romanzo, dedicandomi con grande abnegazione professionale alla degustazione di vini e pietanze locali. Non so se rendo l’idea della portata del mio martirio… Per rinfrescare la memoria sulla gestione quotidiana di un ristorante, poi, ho potuto contare sul prezioso aiuto di Cesare Montomoli, gestore della “Taverna della Bernardesca” che, oltre a rimpinzarmi di delizie toscane, mi ha aperto la sua cucina e ha risposto a tutte le mie noiose domande.

Sul folklore c’è meno da dire: a parte quel che già conoscevo, ho spulciato un bel po’ di testi e scandagliato la rete. C’è tanto di quel materiale che la vera sfida non è trovarlo, ma usarlo in maniera originale e creativa, obiettivo che spero di aver centrato.

Una cosa che in un primo momento mi ha spiazzato, ma che poi ho apprezzato molto, è che molti personaggi del romanzo, da buoni toscani, parlano in dialetto. Puoi raccontarci le ragioni di questa scelta, particolare nel fantastico italiano, e le difficoltà incontrate, se ce ne sono state?

Il vernacolo non è stato nemmeno una scelta, l’ho dato per scontato. In molte regioni l’uso del dialetto è ancora molto diffuso, a vari livelli, e il realismo dei dialoghi soffrirebbe un impersonale italiano da libro di grammatica. Ricercare la verosimiglianza con mezzi diversi, magari con un lessico grossolano o espressioni scurrili non connotate geograficamente, suonerebbe falso. Molto meglio andare alla radice, soprattutto quando la scelta sia praticabile. In passato ho scritto in genovese, veneto, romano e calabrese, ma il toscano è ancora meglio: oltre a essere di facile comprensione, ha il non trascurabile vantaggio di enfatizzare le molte parti comiche del romanzo. L’umorismo toscano non può essere disgiunto dalla sua lingua; come dicevo, dunque, scelta obbligata. I dialoghi sono un punto delicato di ogni narrazione, adottare un registro che “simuli” un tono colloquiale e abbia anche una buona resa scritta non è semplice. La scelta del dialetto, in apparenza tanto peculiare, può essere vista come scorciatoia furbastra per ottenere quel tipo di naturalezza. Ma c’è di più: guardando la questione da un punto di vista più ampio, credo nessuno obietterà se dico che il fantastico italiano deve recuperare terreno rispetto alla “letteratura” alta e alla narrativa mainstream, per raggiungere un pubblico intorpidito da tematiche spesso logore e ripetitive; non credo sarebbe una buona idea se chi scrive fantastico creasse a sua volta gabbie tematiche e stilistiche entro cui rinchiudersi. C’è bisogno di freschezza, di originalità, quindi uscire da canoni e canovacci, per me, è più che auspicabile. Il dialetto, come qualunque altra innovazione (ma, in realtà, nella letteratura italiana non di genere è cosa tutt’altro che nuova e assume tale connotato relativamente al contesto del fantastico), dovrebbe essere ben accetto.

La difficoltà, piuttosto, è stata centrare l’esatto vernacolo della zona del Chianti, perché non basta cercare d’innovare, bisogna anche farlo bene. Anche una scelta coraggiosa può rivelarsi ingenua, se perseguita senza la necessaria precisione e meticolosità (a tal proposito, due precisazioni: il vernacolo che uso è simile a quello chiantigiano, abbastanza per essere credibile ma di certo non perfetto; in secondo luogo, approfitto per un ringraziamento a David Galligani per la consulenza in merito).

Hai altre idee in cantiere, in questo momento?

Moltissime. Ho cominciato un nuovo romanzo dal titolo Mafia for rent che, attraverso la psicosi di un uomo, parla dello stato d’ingiustizia diffusa nella società moderna, contrapposto allo stato naturale in cui vige la legge del più forte. Il dubbio morale ed etico che voglio porre è su quale sia il male minore, posto che un’alternativa non pare esserci, escludendo le utopie. Ho un paio d’idee per altrettanti gialli, la gabbia narrativa pronta per l'ucronia di cui parlavo e poi, ovviamente, c’è il seguito di Italian way of cooking, la cui stesura comincerà al più tardi fra un paio di mesi. Il problema, come sempre, è la cronica mancanza di tempo. “Datemi del tempo e scriverò romanzi”, diceva Archimede. O qualcosa di simile.


Ti ringrazio nuovamente per la disponibilità e ti lascio uno spazio conclusivo, qualora voglia aggiungere qualcosa per i lettori del blog.

Sì, grazie: comprate italiano, date una possibilità agli esordienti e, se vi piace un libro, fatelo sapere. La lista di autori cui devo qualcosa, lì sopra, è quasi del tutto priva di connazionali. Non ne vado fiero e, in parte sarà certo per ignoranza, in parte però è perché sono figlio dei miei tempi: non c’è verso di sfuggire al mainstream, almeno in una certa misura. Non è che non riconosca enorme valore a Levi e Calvino, o anche a Saviano o De Cataldo, per fare esempi meno classici e più recenti, tuttavia, amando il fantastico, i primi nomi che mi vengono in mente sono King, Crichton e Tolkien. Scrivere “letteratura” va bene, affrontare tematiche impegnate è senza dubbio necessario, il fatto è che, a mio avviso, abbiamo bisogno anche di altro, dobbiamo rompere l’ingessatura che c’immobilizza da decenni, e qualche thriller storico non sarà sufficiente. Dobbiamo imparare a non vergognarci della fantasia, che in Italia consumiamo come il porno: con avidità ma di nascosto. Se King vende centinaia di migliaia di copie anche da noi un motivo ci sarà; piuttosto, sarebbe il momento di domandarsi perché non possa fare altrettanto qualcuno con un nome italiano. Ci serve il nostro Re, e una corte tutta sua. Senza scimmiottare nessuno, per carità, e magari affrontando temi coerenti con la nostra tradizione, rimanendo italiani, ma usando un linguaggio e una prospettiva diverse.

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