Il rapporto fra Stato e autonomia universitaria assume in Italia, come nel resto di Europa, una forma particolarmente buffa. Da un lato l'autonomia universitaria apre a tutta una serie di nuove opportunità didattiche, dall'altro viene limitata dalla continua introduzione di limiti e requisiti che vanno ad appesantire la valutazione ex ante, laddove si attende da anni l'introduzione di una forte valutazione dei risultati, ex post. Di fatto, la valutazione ex ante non è altro che burocrazia, un modo sbagliato e pesante di impiegare le risorse didattiche e amministrative, che non lascia spazio al pieno sfruttamento dell'autonomia.
Viene da chiedersi se lo stato attuale delle cose sia da imputare ai meccanismi di autogoverno degli Atenei. C'è chi sostiene che l'accentramento di potere nel Senato Accademico, feudale e autoreferenziale, abbia impedito di fatto una programmazione di Ateneo della didattica. Forse è questo che ha in mente Mariastella Gelmini, depotenziando l'organo che ha fallito (in tutta Italia) la grande prova dell'Autonomia e restituendo le competenze a un Consiglio di Amministrazione molto meno rappresentativo, rispetto a oggi, delle categorie dell'Università. Forse è questo, ma sappiamo che questo aspetto della riforma, più di altri, ha suscitato un coro di opposizione trasversale e molto arrabbiato.
È chiaro che non possiamo semplicemente tornare alle tabelle ministeriali e rinunciare all'autonomia. Non possiamo neanche sperare di conservare lo status quo, soprattutto se il Ministero è pronto a rispedire uno statuto che non ne segua le indicazioni, eccettuate le realtà che, per meriti organizzativi e gestionali, dimostrano di non averne bisogno.
Concludo con una citazione:
«Il punto cardine di una tale situazione risiede [...] nella resistenza che manifesta il mondo accademico ad aprirsi alla società. In pratica, ad accettare di indirizzare la propria attività, oltre che verso didattica e ricerca, anche in direzione di quella che è ormai nota come terza missione dell'università [...] e conseguentemente aprirsi alla collaborazione di interessi esterni nelle scelte politiche dell'ateneo.»
La richiesta è molto semplice, e non ha a che fare con la didattica e la ricerca. Se le Università sono dei poli di sapere, non è pensabile che lo scambio di sapere con la società avvenga solo tramite l'iscrizione e termini con il diploma di laurea, né che l'apertura alle imprese avvenga solo tramite collaborazioni dirette di vario tipo che poi si risolvono con un tira e molla infinito, accuse e tentativi di latrocinio di proprietà intellettuale.
Indubbiamente gli Atenei devono aprirsi al mondo esterno e già lo statuto attuale lo prevede. Mi chiedo però come debba avvenire questa apertura, se con l'imposizione, favorendo nomi imposti dall'alto o dal basso, o con l'ingresso dei naturali stakeholders dell'Ateneo. Si sarebbe giunti a questo se l'apertura si fosse verificata in modo spontaneo e naturale?
Sono rimasto pieno di domande.
Resta il fatto che un sistema incapace di aprirsi, non dico all'Europa (come richiesto dalla Dichiarazione di Bologna), ma all'Italia avesse bisogno di uno scossone.
Con un po' di sale in zucca, avrebbe giovato, e un pizzico di lungimiranza.
Viene da chiedersi se lo stato attuale delle cose sia da imputare ai meccanismi di autogoverno degli Atenei. C'è chi sostiene che l'accentramento di potere nel Senato Accademico, feudale e autoreferenziale, abbia impedito di fatto una programmazione di Ateneo della didattica. Forse è questo che ha in mente Mariastella Gelmini, depotenziando l'organo che ha fallito (in tutta Italia) la grande prova dell'Autonomia e restituendo le competenze a un Consiglio di Amministrazione molto meno rappresentativo, rispetto a oggi, delle categorie dell'Università. Forse è questo, ma sappiamo che questo aspetto della riforma, più di altri, ha suscitato un coro di opposizione trasversale e molto arrabbiato.
È chiaro che non possiamo semplicemente tornare alle tabelle ministeriali e rinunciare all'autonomia. Non possiamo neanche sperare di conservare lo status quo, soprattutto se il Ministero è pronto a rispedire uno statuto che non ne segua le indicazioni, eccettuate le realtà che, per meriti organizzativi e gestionali, dimostrano di non averne bisogno.
Concludo con una citazione:
«Il punto cardine di una tale situazione risiede [...] nella resistenza che manifesta il mondo accademico ad aprirsi alla società. In pratica, ad accettare di indirizzare la propria attività, oltre che verso didattica e ricerca, anche in direzione di quella che è ormai nota come terza missione dell'università [...] e conseguentemente aprirsi alla collaborazione di interessi esterni nelle scelte politiche dell'ateneo.»
La richiesta è molto semplice, e non ha a che fare con la didattica e la ricerca. Se le Università sono dei poli di sapere, non è pensabile che lo scambio di sapere con la società avvenga solo tramite l'iscrizione e termini con il diploma di laurea, né che l'apertura alle imprese avvenga solo tramite collaborazioni dirette di vario tipo che poi si risolvono con un tira e molla infinito, accuse e tentativi di latrocinio di proprietà intellettuale.
Indubbiamente gli Atenei devono aprirsi al mondo esterno e già lo statuto attuale lo prevede. Mi chiedo però come debba avvenire questa apertura, se con l'imposizione, favorendo nomi imposti dall'alto o dal basso, o con l'ingresso dei naturali stakeholders dell'Ateneo. Si sarebbe giunti a questo se l'apertura si fosse verificata in modo spontaneo e naturale?
Sono rimasto pieno di domande.
Resta il fatto che un sistema incapace di aprirsi, non dico all'Europa (come richiesto dalla Dichiarazione di Bologna), ma all'Italia avesse bisogno di uno scossone.
Con un po' di sale in zucca, avrebbe giovato, e un pizzico di lungimiranza.
dici?
RispondiEliminaehm... cosa in particolare? sono rimasto un po' bloccato col blog! ^^
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